
Stamani sono uscito in perlustrazione tra monti e mare, ripide salite e altrettante discese tra i campi che sbucano improvvise di fronte al mare, tra Monte Somma e Vesuvio alle spalle e il mare della litoranea di Torre del Greco, e poi verso la Marina del Sole di Torre Annunziata.
Chi muove dai paesi vesuviani dell’entroterra, Terzigno, San Giuseppe Vesuviano, Ottaviano, per raggiungere il mare più vicino e a buon mercato, deve salire prima verso il Vesuvio di spalle al Monte Somma, lasciando sulla sinistra salendo, i paesi di Boscoreale, Boscotrecase, Trecase, figli in origine certamente di uno stesso antico agglomerato di case, poi frammentato in altri piccoli agglomerati dai nomi molto simili.
La salita ha carattere di scoperta, di svelamento; l’orizzonte dall’alto si colora dei colori del mare, e più da vicino dei colori della spazzatura, che generosa e abbondante è lasciata da mani ignote lungo tutto il corso della strada.

Da questa postazione di avvistamento sono sospeso tra terra e mare; dal lato della montagna mi incanta il verde e la bellezza dei campi coltivati a viti d’uva generosa, e da alberi da frutto come le albicocche preziose e dolci; non mancano i pomodori, piccoli e appuntiti, forse il prodotto più amato e ricercato di questi campi assolati, che di sera risuonano del frinire delle cicale, come nelle belle pagine de “La provincia addormentata “ di Michele Prisco, scrittore nato a Torre Annunziata, che con questo romanzo attirò l’attenzione della critica - dal lato del mare, la terra scende a gradoni verso il mare.
I pini e la macchia mediterranea incastonano il paesaggio in uno scrigno; ma non è prezioso, è solo caro alle proprie radici.

A questa altezza è la ristorazione il dominus; una interminabile sequenza di sale per sposalizi, cresime, comunioni e battesimi, tengono botta a onta dello sporco e dell’incuria che non si concilia con il paesaggio, che non sai spiegarti in nessun modo.
Non dovrebbero esserci i rifiuti in nessun luogo, e né soprattutto qui.
Avverto un senso di provvisorietà, di incerto baricentro esistenziale; muri cadenti, ringhiere rugginose che hanno visto tempi migliori, tanti campi anche vicini a sontuosi ristoranti con prato verde e fontane, sono abbandonati e deserti di mani che potano, che zappano, che sradicano l’erba molesta che si infiltra in ogni dove.
Le fontane zampillanti di freschi scrosci dominano in molti di questi locali, nati negli ultimi anni con lo scopo di accogliere le folle tumultuanti delle cerimonie; lo sguardo non sa stare fermo, salta da un punto all’altro intercettando casette rurali mal costruite e sicuramente abusive, e rettangoli di campagna recintata con alte mura e ringhiere appuntite, schermate da teli verdi ombreggianti che non lascia filtrare lo sguardo verso l’interno.
E’ un luogo di forti contraddizioni, dove non ritrovi ciò che hai perso nel bailamme del tempo incombente, frustrante e opaco di luce, ma ulteriori motivi di scosse, per come l’ambiente ferito reclama una tregua.
Anche per me reclamo una tregua, e così speranzoso dirigo verso il mare.
I monti che amo, e il Vesuvio gigante alchemico mi hanno lasciato l’amaro in bocca.
Così prendo per il mare.
Il mare, il sogno di quando ero bambino.
Le mani sono le stesse, l’incuria e l’abbandono anche.
La fascia costiera che parte da Rovigliano dove termina la sua corsa il fiume Sarno, con i suoi colori marrone, è un lungo devastante elenco di sozzure, che non riesco bene a compilare. E me ne scuso.
Sono attonito, o forse in trance. Luoghi bellissimi incastrati con sapiente cesello tra terra e mare, sono diventati cadaveri esalanti l’ultimo respiro; il mare coraggioso con i suoi flutti perenni lambisce coste zeppe di sozzure, dove le buste di plastica e le bottiglie vuote, sono ingredienti costanti della vista; fogli di giornali sporchi e laceri forse usati dalle coppie in cerca di riparo svolazzano come farfalle per l’aria, mentre i piedi incontrano ostacoli al calpestio.
L’acqua del mare non riesco a stabilire di quale colore sia; una chiazza molto grande marrone, forse rigurgito beffardo di cloaca, svetta puzzolente al centro dello specchio d’acqua in prossimità dei lidi, dove i bagnanti si dispongono al sole.
Per arrivare dove sono in questo momento in cui prendo appunti, ho attraversato i campi che dalla strada Via Nazionale diretta verso Torre del Greco, in località Santa Maria La Bruna, sbucano sulla sottostante Litoranea.
Antiche costruzioni di impianto settecentesco con bei portali in pietra vesuviana svettano al centro di queste, che in origine erano grandi masserie rurali, dove negli ultimi anni le colture dei fiori in serra rappresentano la risorsa principale.
Ma il degrado è grande, oscura il cuore.
E anche i fiori, dicono, non esalano più profumi, nel senso che il settore è in crisi, dovendo lottare con i rincari dei costi fissi contro nazioni europee più competitive, e anche chi costruiva serre, ha dovuto riciclarsi in altri mestieri.
Molti locali e ristoranti di un tempo, attendono restauri, la salsedine arreca danni alle costruzioni più vicine alla linea del mare, mangia il ferro che diventa nero di ruggine, sbreccia gli intonaci, corrompe le mura di tufo.
Vado verso Torre Annunziata, da dove Giancarlo Siani, coraggioso, inviava “ pezzi “ pagati a caro prezzo, verso Napoli, verso Il Mattino.
Il corso principale, è ostruito da lavori stradali, così devio a sinistra tra budelli di vicoli senza luce, dove l’alterco di voci di donne è ferita, rompe la piatta monotonia di questo giro.
Destra e sinistra, poi in fondo a diritta, sono arrivato sul porto.
E che porto, poche imbarcazioni, poca vita, poco di tutto.
E i lidi della mia infanzia; Santa Lucia, Eldorado, Lido Azzurro, il più amato, il più desiderato, dove i corpi avidi di sole riposavano sulla sabbia nera vulcanica, prima di immergersi nelle acque non ancora marroni.
Sull’estremità del porto, vicino al faro, i miei amici abili nuotatori si tuffavano spavaldi, mentre restavo ad osservarli in quelle acque amate ma mai frequentate bene come loro.
C’è ancora, incredibile, la spiaggia libera, allora chiamata “ lido Mappatella “ dove entravano folle sciamanti; intere famiglie provviste di ogni pietanza e mercanzia da esporre e consumare sotto grandi ombrelloni a colori.
Una rete metallica divideva le due spiagge, e molti, via mare tentavano di infiltrarsi nel lido vicino, in cerca di conoscenze femminili, perché ben provvisto, tentando di scansare i guardiani che riconoscevano gli “ stranieri “.
Oggi, il lido “ Mappatella “ vero e proprio non c’è più, pochi ombrelloni però ancora resistono sulla linea di sabbia più vicina all’acqua, dove grandi cartelli da quando ho iniziato il giro marino, dicono a chiare lettere “ Vietato la balneazione “.
Il Lido azzurro è ancora molto frequentato, perché si è riconvertito, con piscine a cui abbina l’elioterapia, e così vedo molte mamme mentre attraversano la strada con i figli piccoli, dirigersi alla cassa.
Dalla piazza antistante i lidi, partivano in quegli anni, 1965/67/68 grandi pulmann pieni all’inverosimile di ragazzini, tra cui io, mamme, sorelle, cugine, qualche padre, diretti sulla via del ritorno ai paesi da dove sono partito stamattina per questo giro nei luoghi che ancora ci appartengono, nonostante tutto, e il brutto che avanza come l’alta marea.