
Stamani, nel corso della mia passeggiata, ho raggiunto il cimitero del mio paese, e ho iniziato ad esplorarlo in molte direzioni.
Devo dire che è molto ben tenuto, pulito e ordinato; i viali sono spazzati di continuo, e si notano i lavori di ristrutturazione che hanno interessato l’ingresso, con la sostituzione del cancello, che ora ha un bel colore.
Ho notato il rifacimento dei servizi igienici, perché anche in questo luogo, sono importanti e necessari ai visitatori viventi, e la numerazione che accompagna ogni loculo o Cappella, ai fini dell’inventario generale degli ospiti.
Ho attraversato viali centrali, vialetti piccoli e nascosti, sbucato all’improvviso tra vecchie tombe quasi cadenti, e poi mi sono soffermato a lungo dinanzi alla Cappella dove sono custoditi i resti dei miei genitori e della mia famiglia di provenienza.
Ho sostato a lungo, il mio sguardo pensoso si posava di volta in volta su una fotografia, per decifrare particolari, per interpretare sguardi e sorrisi dall’aldilà.
Hanno scavato delle nuove sepolture davanti ai cancelli, su entrambi i lati, e per ora solo il viale di accesso resta sgombro.
Sul lato sinistro ho riconosciuto dalla foto un giovane della mia età, che mai avrei creduto già riposasse.
Sono sconcertato, le foto non mi aiutano, forse aveva ragione la scrittrice Susan Sontang, quando rimarcava che le foto sono ingannevoli, sono l’istantanea di un dato momento della vita, ma non valgono per sempre.
Sono sempre più sconcertato, e molto concentrato nello stesso tempo, per capire il vortice dei sorrisi che si leva dalle sepolture, e che ci invia messaggi che non so capire.
E’ un linguaggio muto, fatto di sguardi, di sottintesi, di occhiate, di ammonimenti, di incitamenti ad andare avanti nonostante tutto, ma anche di rimproveri, forse, di richiamo all’ordine, di richiamo alla serietà della vita provenendo dalla morte.
Le Cappelle più vecchie conservano all’interno foto di uomini molti seri nati sul finire del secolo scorso, accanto immagini delle loro mogli, sorelle, madri, altrettanto serie.
C’è un distacco molto forte tra un secolo e l’altro; i defunti nati sul finire del secolo scorso hanno non solo nel portamento e nel vestiario, per quello che riesco ad intuire, ma anche nello sguardo e nell’atteggiamento del viso, un superiore distacco, una lontananza forse acuita dal mezzo stesso che ha prodotto la foto – ci guardano insomma dall’alto in basso.
Gli uomini e le donne di un tempo, a partire dai nostri nonni, esprimevano il senso di un esistere nella parca espressività di un mondo che si riduceva a poche cose essenziali; i genitori, la famiglia, il duro lavoro, il rispetto, il decoro, il sacrificio [ molti lasceranno la loro giovane vita sui campi di guerra ] molto altro per loro non esisteva, ed era festa grande quando qualcuno, scampato ai conflitti bellici, tornava in paese festeggiato dalla famiglia, dai parenti, e da tutto il paese.
Un matrimonio ancora fino agli anni quaranta o cinquanta, come quello dei miei genitori, così mi hanno raccontato, si svolgeva in casa, con un banchetto per i parenti più stretti, e alcune foto in bianco e nero, che ho rivisto in questi giorni, scattate dal vecchio fotografo, con i bambini più piccoli davanti, tra i piedi dei grandi.
E la morte aveva una sua sacralità, si lasciava la vita quasi sempre in famiglia, attorniati dai familiari, ricevendo parole che si desiderava ascoltare; si impartivano le ultime raccomandazioni, si scioglievano contese, si riappacificavano gli animi.
La morte insomma veniva vissuta in una maniera umana.
Poi, con lo sviluppo frenetico della società di massa, i morti sono stati spinti sempre più in là, in ospedali, in cronicari, in corsie disadorne e fredde, non c’è più tempo per approntare il rituale della scomparsa dalla vita.