
Le immagini che ci giungono in queste ore del disastro di Favara, in provincia di Agrigento, ci ricordano che ancora nel Sud, ci sono tanti luoghi simili ai Sassi di Matera, famosi in tutto il mondo - ora restaurati e divenuti luoghi di arte e musica, nel primo dopoguerra quando l’Italia li scoprì inorridì per le condizioni di vita a cui erano costretti contadini e braccianti della Basilicata.
E le immagini provenienti da Favara, di vicoli abbandonati e malsicuri, intonaci e murature fatiscenti, lesionate in più punti, con l’aggiunta di pesanti serbatoi sul soffitto, non sono per niente diverse, da quelle che fecero inorridire l’Italia negli anni cinquanta.
Entrambe parlano la stessa lingua; esclusione allora, esclusione oggi, mentre si raccolgono fondi per il ciclopico Ponte sullo Stretto, la gente continua a morire in Sicilia, a Favara, come a Giampilleri per le frane, e a desiderare una casa popolare e l’acqua corrente tutti i giorni, perché in Sicilia, o in buona parte di essa l’acqua è un bene prezioso, per chi la vende con le autobotti, a peso d’oro.
Ora che l’Amministrazione Comunale di Favara è stata costretta dalla morte di due bambine, a prendere coscienza di non poter più rimandare gli abbattimenti, le ruspe sono entrate in funzione, con il ritardo dei pachidermi, l’Ente Locale, ha finalmente visto, quello che non aveva mai voluto vedere.
E’ bene ha fatto il Vescovo, a porsi tra la folla, a non voler celebrare i rituali funerali solenni, che sanno tanto di pompa e di facciata, perché davanti a cronache di morti annunciate così dolorose e gratuite, lo sdegno non può rifugiarsi, o nascondersi dietro la convenienza.
La Procura di Agrigento è al lavoro, e ha costituito un apposito team, per scoprire le responsabilità e illuminare le zone oscure o grigie, e ce ne sono tante, che hanno permesso all’alba di un giorno di Gennaio del 2010, che a quattro passi dal Comune, un palazzo sparisse all’improvviso, ridotto in polvere e macerie, e seppellisse per sempre le aspettative di vita di due sorelline.