
Rosarno terra dei fuochi, delle fughe, delle spranghe, dell’amore poco, dello sfruttamento tanto.
Sembrano essere queste le coordinate insieme a tante altre, le direttrici per leggere dei giorni calabresi, dove uomini hanno inferto ad altri uomini, condizioni di vita simili all’inferno.
Migranti, viaggiatori in cerca di terre sempre diverse, di campi dove occorrono le loro braccia preziose, e di baracche, tuguri, capannoni industriali dismessi e abbandonati, cisterne dell’olio adattate a ricovero per le notti.
Non è mai bella la cronaca che scivola con le sue immagini sulle nostre esistenze al sicuro, nelle nostre tiepide case, ma le immagini ci impongono di tenere gli occhi aperti, anche quando vorremmo tenerli chiusi.
Così le fughe e i ferimenti e le devastazioni di Rosarno, sono entrate nel nostro quotidiano senza nessuna mediazione, all’improvviso, nel tempo di un clic del telecomando e alla velocità dei notiziari.
Rapide, fulminee apparizioni, ma lunghe, infinite per loro, nel loro tempo di braccati, di scacciati, di rifiutati.
Il rifiuto è sempre l’anticamera di qualcosa di peggiore, che è simile alla deportazione, così fu per gli ebrei, per i rom, per gli slavi, poi, poi, sempre poi.
Chi tornerà ora nella piana degli aranci e delle dolci clementine?
Chi prenderà il posto di chi si è ribellato?
Chi sarà disposto a riempire i vuoti dopo la fuga, a serrare di nuovo le fila per non far mancare braccia all’agricoltura e ad andare a rioccupare le camere da letto lasciate vuote?
Difficile dare risposte, nel palleggio delle responsabilità, e di leggi inutili e mal concepite, saranno ancora gli ultimi a scambiarsi tra loro ruoli e sofferenze silenti.