
La parola villaggio, contiene due possibili visioni; una è quella legata agli indiani, i mitici pellerossa, attaccati alla loro terra fino alla morte, e pronti a difenderla dall’uomo bianco invasore e colonizzatore senza scrupoli fino all’ultimo sangue, come la storia ha registrato - l’altra è legata agli uomini preistorici, alle prime comunità umane di cui si ha avuto notizia, che per difendersi da animali feroci, predatori e insidie, costruivano le loro capanne su alte palafitte, spesso in prossimità di corsi d’acqua.
Il fuoco, come nei villaggi indiani, era mantenuto sempre vivo, serviva a tenere lontani i predatori notturni e a scacciare più lontano la notte.
Nell’immaginario moderno invece, soprattutto vacanziero, la parola prelude a svago, tempo libero, ferie estive, da trascorrere in agglomerati recintati quasi sempre in prossimità del mare; costituiti da bungalow, casette mobili, o quant’altro, provviste di tutti i comfort necessari, e soprattutto staccate dal resto della vita che pulsa fuori, caotica e fremente.
Solitamente tutto è molto regolato, accessi e uscite, visite di amici e parenti, che bisogna far registrare appositamente, per tenere la situazione in pugno.
I villaggi estivi sono un microcosmo, lo sono sempre, su tutto il pianeta; quando si parte per viaggi se non si è indirizzati in città o regioni, per scoprirne fascino e bellezza, storia e tradizioni, la scelta principalmente per la gran massa di giovani, cade su questi agglomerati staccati da tutto il resto, dove si balla e si canta, si mangia e si beve in allegre brigate.
Una volta entrati dentro, si è pronti di tutto punto ad impegnare i giorni fissati secondi il calendario interno, che scandisce il tempo libero e vacanziero, tra balli, escursioni in acqua, giochi, intrattenimenti, e chiacchiere estive in libera uscita.
Così, chi è andato nel Cilento, oppure in Marocco, due località agli antipodi, restando chiuso nel rispettivo villaggio, nei pochi giorni, solitamente una settimana, non ha visto nulla del luogo, non riporterà indietro nessuna emozione forte di conoscenza acquisita scarpinando tra centri storici al contatto con culture tanto diverse dalla propria.
L’essenziale è staccare la spina come usa dire, affinché la corrente non passi, e nulla trapeli del mondo circostante.
Nella loro banalità, in questi accampamenti del divertimento forzato, dove gli animatori fingono di conoscere tutti per nome davvero bene, invitando a divertirsi e a partecipare a giochi di gruppo, sembra avanzare la spersonalizzazione dei “ non-luoghi “ di cui parla l’antropologo Augè; non solo aeroporti, centri commerciali, stazioni ferroviarie, motel e autogrill lungo le autostrade quindi, ma anche i centri di grande divertimento collettivo, starebbero acquisendo questi caratteri; la folla come sommatoria di molte solitudini, raduno collettivo da cui non bisogna sottrarsi, rito da perpetuare ogni anno.
Guai al rientro non sottolineare di essere stati in “ villaggio “ ma in un agriturismo, che richiama alla mente la campagna, la collina, gli alberi, gli animali, la cucina casalinga alla buona, e non cucine più sofisticate e internazionali, e peggio ancora in “ case “ altri anonimi alloggi di privati concessi in fitto, che sottintendono la fuga da una casa all’altra, se anche in prossimità del mare.