
Venerdì 28 Novembre, alla Metart Arte Contemporanea di Ottaviano ( Na ) si è tenuta la presentazione del saggio di Aniello Montano “ Solitudine e solidarietà “ saggi su Sartre, Merleau-Ponty e Camus. Bibliopolis, Napoli 2006.
Hanno partecipato Gaetano Romano, Enzo Rega e l’autore.
Riportiamo qui di seguito, la relazione tenuta da Enzo Rega.
MONTANO, Solitudine e solidarietà. Saggi su Sartre, Merleau-Ponty e Camus, Bibliopolis, Napoli 2006
Montano, nella sua prosa saggistica, ha il dono di unire chiarezza e rigore. Dote che non hanno tutti gli storici e interpreti, si occupino essi di filosofia o letteratura o arte. Spesso, per citare Heidegger, ma in un’accezione meno nobile, occorre un’interpretazione dell’interpretazione. Montano, appunto è uno storico della filosofia, ma uno storico, nella rete dei propri riferimenti, può affacciare anche il proprio pensiero. Nel saggio in appendice dedicato alla collocazione del filosofo José Gaos in un possibile esistenzialismo spagnolo, Montano sottolinea come il pensatore iberico sia “convinto che ogni possibile teoria della filosofia nasce e si alimenta a partire dalla storia della filosofia. Più che l’unità di storia e filosofia, di sapore troppo idealistico, [Gaos] difende l’intreccio tematico e teoretico di filosofia e storia della filosofia” (p. 182). Ciò sa di riflessione metacognitiva sul proprio lavoro di storico e sulla portata del suo significato, soprattutto se questa sottolineatura la colleghiamo a un’altra contenuta in un altro importante lavoro di Montano, “Il prisma a specchio della realtà. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli, Catanzaro 2002): qui (cfr. p. 79), analizzando la concezione della storia della filosofia proposta da Filippo Masci come qualcosa che venga facendosi senza un esito predeterminato, considera come chi faccia storia della filosofia debba avere anche una propria filosofia, un punto di vista teoretico di guida nella ricognizione storica. Se prima eravamo di fronte a un filosofo-storico, qui abbiamo uno storico-filosofo. Masci viene trattato all’interno di un excursus sulla filosofia italiana estranea all’asse idealistico crociano-hegeliano e che, come abbiamo visto con Masci, si oppone a una concezione deterministico-finalistica dello sviluppo del pensiero nel tempo. Il che si ricollega alla polemica sartriana e camusiana nei confronti dello storicismo hegelo-marxista, idealista o materialista che sia, di “Solitudine e solidarietà”. Per quanto riguarda questa tramatura, possiamo considerare come dei tic storiografici e concettuali compaiano laddove potrebbero sembrare “decentrati” rispetto alla trattazione in corso: così per Camus nominare Spinoza interpretato da Giuseppe Rensi, come Montano fa nel suo “Camus. Un mistico senza Dio” (Edizioni Messaggero, Padova 2003) – Rensi che torna anche in questo libro sempre in relazione a Camus e prima a Sartre stesso –, e legare, in modo ugualmente meno consueto, “Sartre e Spinoza” come nel nuovo volume “Sarte e le arti” (L’arca e l’arco, Nola, Napoli, 2008).
Se diciamo Sartre, se diciamo Camus, se diciamo Merleau-Ponty, se diciamo Spinoza, se diciamo Rensi, se diciamo Giordano Bruno (altro filosofo di Montano), diciamo la libertà del pensiero e il rapporto ineludibile con il mondo, con tutta la portata di una “filosofia pratica”, fra etica e politica, che sembra il filo di questo lavoro storiografico e della sua portata teoretica. “Solitudine e solidarietà” suona però con una accezione esistenziale, ontico-esistenziale, e uno spessore filosofico, a differenza di un titolo, apparentemente analogo, come Coinvolgimento e distacco di Norbert Elias, che ha una più circoscritta portata sociologica, o un’altra espressione ugualmente analoga, quale “impegno e disimpegno”, con un orizzonte ancora più circoscritto in senso strettamente politico. L’endiadi utilizzata per il titolo deriva da un racconto di Camus, “Giona o l’artista in esilio”: Giona aveva scritto in caratteri piccolissimi su un foglio bianco una parola che si poteva leggere sia “solitaire” che “solidaire”. Ciò sottolinea come tra i due termini possa darsi ambiguità, ambivalenza e continuità, quella che possiamo trovare in Sartre e in Camus. E il passaggio dalla solitudine alla solidarietà non si dà mai per definitivamente acquisito perché la dimensione della solitudine può sempre risucchiare l’uomo.
Nei due filosofi-scrittori, o scrittori-filosofi, si può individuare la rispettiva pertinenza dei termini in due momenti diversi del loro percorso. In Sartre “solitudine” corrisponde alla grande opera fenomenologico-esistenzialista “L’essere e il nulla” (1943) e la “solidarietà” all’opera di avvicinamento al marxismo “Critica della ragione dialettica” (1960), con un passaggio che appare come un salto e la cui dinamica invece Montano ricostruisce via Merleau-Ponty. In Camus “solitudine” corrisponde al romanzo “Lo straniero” (1942) e “solidarietà” all’altro grande romanzo “La peste” (1947) con i “corollari” filosofici rispettivi de “Il mito di Sisifo” (1942) e de “L’uomo in rivolta” (1951). Ancora, il primo termine corrisponde al chiuso della coscienza e il secondo al mondo aperto della società e della storia. Quella che può apparire un parallelismo segna invece una allontanamento tra i due autori, Sartre si avvicina con una propria peculiarità al marxismo per allontanandosi dal partito comunista francese e dallo stalinismo ma considerandosi del partito un “compagno di strada” critico e restando in una dimensione politica, per la quale è famoso il suo engagement che è diventata espressione paradigmatica. Invece Camus, avvicinatosi al partito e al movimento comunista, deluso, se ne allontana a soli ventiquattro anni per fare rotta verso un impegno più etico che strettamente politico-partitico. Un impegno che, nel rimprovero che Sartre muove all’amico Camus, avrebbe però scarsa incidenza sul corso della storia. Anche Merleau-Ponty, nel solco dell’incontro-scontro fra marxismo e esistenzialismo di origine fenomenologica, diventa critico nei confronti del partito e dell’Urss come testimonia un libro quale “Umanismo e terrore” (1947), il quale però, com’è stato notato, anticipa anche la demistificazione della razionalità borghese, e dell’implicita violenza, che poi sarà compiuta da Adorno e Horkheimer.
Per quanto riguarda Sartre, dopo un’ondata di demonizzazione come “cattivo maestro”, uno dei nouveau philosophe come Bernard-Henri Levi ha intitolato un libro addirittura “Le Siècle de Sartre” (2000), riconsiderando centrale un confronto con il filosofo francese. Con “L’essere e il nulla” Sartre, come dicevamo prima e come sottolinea Montano (cfr. “Solitudine e solidarietà”, p. 19), assume già una posizione antihegeliana perché fra i due termini non si dà un rapporto dialettico con sintesi finale, come per Hegel in un eracliteo divenire; ma i due termini si contrappongono radicalmente e il nulla incombe sull’essere come minaccia nientificatrice. L’altro elemento è la ripresa del concetto kiekegaardiano di “singolo”, per cui la singola coscienza si contrappone alle altre: tanto che di Sartre è famosa la frase “l’inferno sono gli altri”: gli altri, i loro corpi e le loro coscienze sono ostacoli alla mia libertà, sono cose come gli altri oggetti; e così il mio corpo e la mia coscienza sono solo mezzi per gli altri individui in un rapporto di “separazione ontologica”. Gli altri sono oggetti, mai soggetti a loro volta. Critiche all’hegelismo che Sartre riprende, su un altro piano, respingendo nelle Notes dei “Cahiers pour une morale” la concezione della storia come sviluppo dello spirito e perciò “realtà guidata da una necessità interna protesa alla realizzazione di una meta prefigurata fin dall’inizio” (p. 22). Per Sartre la storia è qualcosa di individuale, non di universale, ciò che conta, come dirà dopo, è la praxis individuale, fatta dalle singole coscienze: artefice della realtà è dunque la coscienza umana. Ma al pericolo solipsistico implicito in queste considerazioni, Sartre in parte scampa proprio nello sviluppo di questi “Cahiers” che preparano la futura “Critica della ragione dialettica”. Ed è in questo passaggio che, a posteriori, si può ricostruire l’influenza di Merleau-Ponty. Queste note sartriane del 1947-49 sono stimolate proprio dall’effetto di “Umanismo e terrore” di Merleau-Ponty, come lo stesso Sartre riconoscerà nel 1961, all’indomani della morte dell’amico. A sua volta attratto dal marxismo, seppure non marxista, o meglio “marxista in mancanza di meglio” (Sartre), Merleau-Ponty precisa sempre di più il convincimento, formato già dai tempi della propria analisi della percezione, che esiste una tessitura che connette il nostro corpo al mondo e il mondo al nostro corpo, esistono cioè strette relazioni interumane (una “socialità sincretica”) e relazioni con la natura, e la materia stessa è coessenziale alla coesistenza umana (cfr. pp. 116-119). Così la coscienza umana esce, nel pensiero francese, dal persistente dualismo cartesiano, e Sartre è spinto a integrare a sua volta esistenzialismo e marxismo: l’uomo si trova calato sempre in una situazione concreta nella quale la sua libertà può esercitarsi in certi limiti in rapporto con le altre coscienze percepite ora a propria volta come soggetti e non come oggetti; l’azione umana è libera in condizioni che però sono date, ed è questo l’approdo al realismo (anche se in Sartre rimane una tensione verso una libertà assoluta che Merleau-Ponty non può condividere). L’incrocio fra esistenzialismo e marxismo fa sì che Sartre, nelle sue successive analisi del gruppo, non cada mai in posizioni collettivistiche: la società, l’universale esiste in stretta relazione e rispetto dell’individuo. Analisi del gruppo che non arrivano comunque a una consolidata dimensione solidaristica: al momento dinamico del “gruppo in fusione”, subentra, una volta raggiunto lo scopo, o la burocratizzazione del gruppo stesso in apparato di potere, come è accaduto nelle rivoluzioni, o la sua dissoluzione nei singoli che tornano dunque alla propria solitudine. A ogni modo, sull’esaltazione della libertà nell’azione umana hanno effetto anche le analisi che Sartre fa dell’arte contemporanea, in particolare della musica jazz – dove il momento dell’improvvisazione è importante pur all’interno di un sistema di regole, e dove l’aspetto del corpo (lo strumento che diventa voce umana e non il contrario) è fondamentale – o della musica atonale e quindi dodecafonica della scuola di Vienna con gli sviluppi fino a Berio e Nono: una musica che infrange i canoni dell’armonia tradizionale e nell’ascolto della quale non possiamo dare per predeterminati i momenti successivi. O, in pittura, le preferenze per la materialità e la corporeità del Tintoretto, per la pittura astratta che si presenta solo con colori e linee che chiede al pubblico di attivare la propria “intelligenza immaginativa”.
Camus, dopo la fase del “sentimento del Mediterraneo”, con l’esaltazione della natura e del rapporto con essa dell’uomo, un rapporto che può mitigare la condizione di miseria degli algerini nonché dello stesso povero giovane Camus che viveva presso di loro, Camus passa alla fase del nichilismo dello “Straniero”, di colui cioè che è estraneo al mondo, che avverte tutto il peso dell’assurdo, della vanità di ogni atto umano di fronte all’esito inevitabile della morte e alla sua impotenza di fronte al Male. Il sentimento dell’assurdo è quello che nasce anche di fronte alla sproporzione fra i desideri dell’uomo e le possibilità concrete di realizzazione. Il Male per Camus ha una portata metafisica che lo porta a incolpare Dio: in questo modo, come sottolinea Montano già nell’opera monografica dedicata a Camus, lo scrittore francese non è un ateo tradizionale, è piuttosto un anti-teista; come diceva di lui Sartre, è in polemica con un Dio che permette il Male. Perché lo questioni sono due: o Dio non è onnipotente (come arriva a dire invece Hans Jonas che riconosce allora il bisogno che Dio ha dell’uomo e non l’uomo di Dio per portare a conclusione la creazione) o è indifferente alla condizione umana di sofferenza. Non serve un Dio che prometta salvezza e ricompensa in un altro mondo: a Camus interessa non tanto un’escatologia sovrannaturale quanto una soteriologia mondana (cfr. p. 127). Il senso del sacro di Camus (per cui Roger Garaudy parla di lui come di “un mistico senza Dio”), come quello di Pasolini, possiamo notare, non riguarda una solo eventuale vita futura. Se Dio è indifferente nei confronti dell’uomo, l’uomo non può esserlo nei confronti di Dio. Ma accusando in questa fase Dio come origine di un Male metafisico, Camus sembra deresponsabilizzare l’uomo (è questo il senso dell’accusa che gli muove Sartre) in un atteggiamento moralistico inefficace, non rendendosi conto che la lotta dell’uomo contro una Natura ostile è a sua volta causa ed effetto di un’altra lotta più antica, quella di alcuni uomini contro altri uomini. Ma è quello che maturerà in Camus nel passaggio ad un’opera come “La peste”: il romanzo, maturato negli anni della violenza nazista, si confronta, seppure metaforicamente con la concretezza della storia. Il Male assume qui tre aspetti: Male metafisico, male naturale e male storico, per l’appunto. E anche se, per la sua portata ontologica, esso non può essere eliminato, i suoi effetti possono essere ridotti nell’alleanza solidaristica degli uomini, che porta il senza-dio Rieux e collaborare con il sacerdote Paneloux, e l’eroe laico Tarrou, in un’opera nella quale Camus si avvicina maggiormente al cristianesimo. E matura così il passaggio al “pensiero meridiano” de “L’uomo in rivolta”, una rivolta che non è la rivoluzione che pretende di instaurare un mondo perfetto e che per farlo esercita violenza sugli esseri umani per piegarli a tale perfezione, ma che accetta di operare con il senso greco mediterraneo della misura e del limite che contemperi libertà e giustizia (la stessa esigenza sartriana). Con fedeltà nietzscheana alla terra e senza le astrazioni di una verità assoluta. Quindi non l’ideologia tedesca ma lo spirito mediterraneo che opera un cambiamento dal basso. Un riformismo anche se con la radicalità di chi è in polemica addirittura con Dio. Una sofferenza non più come fatto individuale, come nella solitudine, ma come avventura di tutti nella solidarietà. “Mi rivolto, dunque siamo”.
Che sia anche la posizione filosofico-pratica di Montano che, tra l’altro, con il riferimento alla greca metriótes, la giusta misura, torna anche agli studi sulla filosofia antica da cui aveva cominciato come giovane allievo di Giuseppe Martano.