
“ Cardboards “, “ Venetians “, “ Early Egyptians “, “ Hoarfrosts “ e “ Jammers “.
Un viaggio limpido di esecuzioni, ma anche nello stesso rigoroso per le questioni che affronta, tutte riguardanti la composizione dell’opera, il suo peso specifico nell’ambiente, il suo farsi guardare dall’osservatore.
Geniale Rauschenberg, passa da un ciclo all’altro, vicini per esecuzione, con garbo intuitivo, e raffinatezza di sguardo, continua a svolgere sempre lo stesso filo, che trova ogni volta un nuovo scorrimento.
Questo dice la mostra nella splendita sede del Museo Donna Regina, dove l’artista americano scomparso a Maggio di quest’anno, compone un puzzle dei molti materiali che contraddistinguono la fase degli anni settanta, poco nota al pubblico, e che ora questa rassegna, alla sua terza tappa, dopo Porto e Monaco, riesce a mettere benissimo in risalto.
I Cardboards, realizzati tra il 1971 e il 1972, si basano essenzialmente sull’utilizzo del cartone trovato, e coincidono con il suo trasferimento nell’isola di Captiva, nel sud della Florida.
Fu il primo artista ad adoperare solo il cartone per quadri e sculture, e senza trattarlo come decoro pittorico, lasciandolo ad attivare il processo visivo nella concretezza della sua materia, di cui lasciava ben in evidenza, segni, stampigliature, impronte, la vita, in un certo senso del materiale.
I Venetians invece, che sono del 1972 /1973, furono creati a Captiva dopo un lunga permanenza
a Venezia, e per questo ciclo adoperò prevalentemente materiali di produzione di massa e oggetti di scarto di uso domestico: stoffa, corda, legno, pelle, pietra, cavi e fili elettrici, sedie, vasi, cuscini, una vecchia vasca da bagno.
I Venetians sono più scultorei, rispetto ai Cardboards, e meno astratti. Caratteristico è il riferimento all’immaginario veneziano, che non è comunque puramente figurativo, ma concettuale.
Gli Early Egyptians sono del 1973/1974, ed è ancora il cartone il materiale dominante, anche se viene trattato in maniera inedita, cospargendolo di colla e facendolo rotolare nella sabbia di Captiva, in modo da assumere l’aspetto di una pietra, e non senza una certa ironia l’autore, ricopre il cartone di fasce e bende che riecheggiano nella mente le mummie dell’antico Egitto.
Reminiscenze proprie del vissuto personale dell’artista, perché egli non era mai stato in Egitto, e la conoscenza di quella regione gli proveniva sicuramente da libri e visite compiute nei musei.
Le scatole sono poi dipinte con vernice fluorescente sul retro, innescando una luce e un alone sul muro come se gli oggetti vi proiettassero ombre artificiali.
Sono opere ambigue, perché fanno pensare a delle pietre, al loro stesso peso gravitazionale, ma poi ci si accorge che sono scatole addormentate nella luce.
Gli Hoarfrosts, eseguiti tra il 1974/1957 utilizzando tessuti al posto dei supporti di tela, sono alchemici e riportano tracce e residui di immagini.
Il termine indica la brina, e fa riferimento all’Inferno di Dante che Rauschenberg aveva già illustrato negli anni ‘ 50 con una serie di disegni che metteva in campo la tecnica del transfer-drawing.
Accompagnato dal poeta Virgilio, Dante discende all’Inferno, avvolto nella nebbia e nel gelo.
L’inizio del xxiv canto indica: “ quando la brina in su la terra assembra/ l’immagine di sua sorella bianca “.
La tecnica di queste opere fanno riferimento a lavori precedenti, quando il maestro americano notò che la garza usata per pulire le lastre di pietra nella litografia manteneva tracce della carta da giornale.
Usando un solvente che consente alle immagini di essere trasferite su tessuto, l’artista creò una serie di lavori su tessuto trasparente o semi-trasparente e trasferiva le immagini dai giornali su seta, cotone e chiffon.
Questa serie in sostanza sembra parlarci di occultamenti, e di stati di suspense attraverso la materia e il colore, anzi le tracce del colore.
La serie Jammers, nacque nel 1975, dopo aver lavorato per un mese in India in un ashram, ospite di una facoltosa famiglia indiana, e qui il colore e le sue mille lingue lussureggianti lo colpirono fortemente, tanto da dare corpo e forma a questa serie, i cui tessuti utilizzati sono di forma rettangolare, quadrata e triangolare, e i loro colori sono luminosi e intensi.
Il titolo della serie si riferisce al windjammer, un veliero, e fanno quindi riferimento al mondo del mare.
Queste opere richiamano alla mente le vele delle navi, gli stendardi medievali o le bandiere dei monasteri tibetani.
Si esce dal Madre fortemente soddisfatti, e intimamente in equilibrio interiore, perché la visione delle opere restituisce fermezza, baricentro, pur nella dissacrante forza propositiva per oggetti e materiali di scarto, recuperati e fatti rivivere nella cornice della pittura dalla sua inesauribile e ironica prodigiosa creatività.