Ha iniziato Emìl Cioran, scrittore rumeno trapiantato a Parigi, e poi scrittore definitivamente di lingua francese, sua seconda patria, a scavare quel solco di riflessioni e di pensieri che si scagliano come dardi su chi legge, e su lui stesso che scrive.
Prima c’era stato Nietzsche, caposcuola di aforismi taglienti e di illuminazioni notturnali che ancora dopo un secolo, popolano la nostra notte.
Anche il nostro Ceronetti è maestro in questo esercizio di ferite; i suoi testi sono brevi, le apparizioni folgoranti scoperchiano le botole delle consuetudini, graffiano con infinito sarcasmo.
Chi scrive per svelare il fondo noumenico delle cose, deve giocoforza ferirsi; accadono incidenti, le parole sono come l’esplosivo, il disastro è sempre in agguato.
Occorre essere prudenti.
Deve esserci certamente anche una relazione, e neanche troppo occulta, tra gli artisti della body art e questo filone di pensiero, come : Nitsch, Orlan, Franko B, Gina Pane, che hanno eletto nel tempo il proprio corpo a bersaglio di pulsioni dirompenti, a scorrimento di liquidi rossi come il sangue.
“ Se la mia temperatura è normale non so scrivere neanche una riga “ dice Cioran, “ trovo l’ispirazione in uno stato di intenso tremore “.
E Giorgio Cortenova precisa perentorio “ l’arte è ferita, se non è ferita non è arte “.
L’artista belga Jan Fabre, poliedrico indagatore del corpo umano, afferma “ Il corpo è quella cosa in cui mi sveglio ogni mattina, è ciò che vedo e conosco di più – il corpo contiene sangue, carne, acqua, linfa permanente. E’ un laboratorio chimico, sensuale, sociale, politico, qualcosa dunque di molto interessante per un artista “.
Ma torniamo alle parole, con cui abbiamo iniziato.
Non si scrive per se stessi, altrimenti sarebbe un triste e penoso soliloquio, ma per chi è pronto a ritrovarsi stesse anche in capo al mondo, in quello che diciamo e come lo diciamo.
Alcune parole risanano ferite, leniscono e nel contempo trovano nuovi bersagli da colpire, e così all’infinito fino a quando ci sarà qualcuno che dopo aver letto avrà scoperto nel suo corpo interno, il luogo vulnerabile, il vulnus.
I poeti, quelli che credono fino in fondo al loro esercizio sono maestri nel colpire e nel colpirsi, ritraendosi – dice la poetessa americana Emily Dichinson “ Non avessi mai visto il sole avrei sopportato l’ombra ma la luce ha aggiunto al mio deserto una desolazione inaudita “.
Gli artisti visivi lo fanno attraverso la forza delle loro immagini, anche quando queste sono il loro stesso corpo, soggetto ed oggetto delle loro pulsioni, palestra delle loro forze.
E’ un terreno comune sin dall’antichità, diventato manifesto crudelmente in questo Novecento, secolo di stermini e di olocausto, di offese e di prevaricazioni, di emarginazioni insopportabili.
A Parigi alcuni amici trovarono una modesta sistemazione ad Artaud, in una pensioncina senza pretese, e gli procurarono una valigia vuota, Artaud non aveva niente con sé, la valigia serviva unicamente a dargli il necessario decoro che si addiceva ad un ospite.
Tutto quello che aveva era nelle sue parole folgoranti di interrogazioni simili a colpi di nerbo, e quelle le portava sempre con sé, nonostante gli elettroschok.