E’ icastica l’analisi della rappresentazione scultorea di Gerardo Di Fiore, che con un consolidato retroterra espressivo di attraversamenti dietro le spalle – passato tra performances nel sociale negli anni sessanta e settanta, con al centro il proprio corpo d’artista tra altri corpi, negletti e negati dalla alienazione mentale; alle installazioni-feticcio antropologico dei settanta e oltre, concentra il suo sguardo degli ultimi anni che ancora scorrono, sulle alchimie di materiali docili come la gommapiuma, andando a cercare nei meandri di questo materiale inusitato, povero ed effimero, altre significanze linguistiche impensate.
Utilizzando questa materia inorganica, si palesa uno scenario algido di corpi e teste mozzate, infilzate lungo assi verticali, evidente frattura lungo il corso dei linguaggi tradizionali adoperati in scultura.
Di Fiore ha piena consapevolezza del mutato ruolo dell’artista a cui lo ha consegnato la storia e le fratture prodotte nella storia dell’arte, che lo vedono al centro di rischiose derive; per suo conto i materiali d’elezione che ha scelto di usare ben rappresentano la condizione odierna, in linea con alcune tesi del filosofo Perniola, che scorge per questi nostri tempi, l’instaurarsi di una specifica condizione di artificialità inorganica.
Il presente ha lo sguardo lungo dietro le spalle, per dire come il consapevole operatore napoletano avvertisse sin dagli anni settanta, l’urgenza di porsi in cammino su altre rotte tematiche andando a ricercare i materiali eterocliti più afferenti alla sua indagine nella contemporaneità – scegliendo di non adoperare materiali canonici come il marmo, oppure il bronzo, e mettendo in atto la sua visione talentuosa e dissacratoria tra respiro onirico e surreale, fino al cupo scenario di una algida inorganicità che avanza e ci accerchia.
In alcune opere della fine degli anni novanta, Di Fiore interviene ricucendo lembi di materia slabbrata, con suture di spaghi terribilmente emblematici, quasi che la materia adoperata fosse nel traslato immaginativo, epidermide sensibile ma minacciata dall’avanzare di scorie velenose e inquinanti.
Lo sguardo interrogante di Di Fiore, che si posa senza alcun ammiccamento su vari aspetti del mondo contemporaneo tra urbano e sociale, è lucido e icastico nella sua irriverenza.
Di Rosaria Matarese, artista molto attiva negli anni sessanta e settanta a Napoli, la mostra propone una serie di opere datate agli anni sessanta e alcune ai novanta, con qualche tecnica mista recente, che riavvolge il filo di un lungo discorso espressivo iniziato alcuni decenni or sono, e che tra lucido impegno sperimentale di ricerche oggettuali e di passaggi environmental – pur tra lunghe pause operative lungo il corso degli ultimi anni, la Matarese ribadisce l’offerta della sua indagine fascinosa e a tratti ludica, in linea con le sue precedenti esperienze linguistiche tra new dada, e squarci di lettura futuristi e dinamici.
Valide e propositive le esperienze degli anni sessanta, anche a rivederle oggi, dopo diversi decenni – quando investigava con lucida ironia l’universo del femminile, i suoi luoghi, come la Camera per amare del 1967, rendendo possibile come annotava Luciano Caruso, lo ‘ straripamento del soggettivo e dell’estetico nella materia e nella vita ‘ – fino a perpetuare e traslare la sua indagine nella materia terragna della pittura, con tavole intense tra pittura e scultura, in cui si fondono motivi rinascimentali e suggestioni antropologiche di ex voto.
Ivan Piano, giovanissimo esordiente, come molti giovani artisti della sua precoce generazione, dimostra quanto il mezzo fotografico li seduca o forse anche li violenti nel profondo; c’è un occhio misterioso che simula l’intrusione, mentre si insinua nella visione, bisogna tenerlo lontano per non corrompere l’alchimia dello sguardo.
Piano opera e interviene sui fotogrammi nel chiuso della camera oscura; li raschia consentendo il distacco e l’espulsione del colore appena impressionato – infine la stampa sentenzia una immagine da trivio, l’opposto della bellezza viva.
Si configura una inedita estetica dell’immagine focalizzata sul disgusto, essa avanza velocemente tra le nuove generazioni, che vedono in Bacon soprattutto, il loro nume tutelare, la summa di tutte le distorsioni che si sublimano nella redenzione dell’arte.
Il corpo si dissolve nelle escrezioni della materia, fino a rendersi liquido e frantumato.
Le foto a colori di Piano si infiammano con violente scudisciate di rossi fuoco, raggiungendo esiti ragguardevoli.
Nei lavori in bianco e nero l’immagine è frastagliata, violentemente scossa, essa è passata attraverso un campo di forze contrastanti, e l’immagine si è spezzettata frantumandosi in mille rivoli di visione, avvalorando una percezione in movimento e fuga.
Altri fotogrammi invece, come gli autoritratti, si offrono in dissolvenze concettuali, algidi di luce lattiginosa dove lo sguardo mentre si smarrisce, ritrova una sua visione frontale e dubbiosa del mondo.