
In quei periodi di mia febbrile attività pittorica, ebbi modo di rinfrancarmi per interi pomeriggi a leggere dello scrittore e poeta Elio Pecora testi imprestati da intellettuali che in modo feticista reclamavano la restituzione del libro senza la minima piega.
Qualche anno fa incontrai Elio Pecora a Napoli ad una manifestazione di Poesia e quello che mi colpì di lui, oltre alla fronte aggrottata, fu la sua espressività, quel suo parlare denso e pacato col quale comunicava l’inesprimibile.
In Simmetrie mi è sembrato di ritrovare un corpo di vetro levigato e fragile come il vivere del poeta e della sua poesia, un corpo che come i versi dell’autore si fa magma incandescente e diventa piani sottili, squadrati e coincidenti che docilmente si intersecano creando alla vista preziose geometrie per la mente e per l’anima, un gioco di colore, alchemico kandiskyano, fatto di giallo/rosso e rosso/azzurro.
L’autore, oltre alla metamorfosi della materia, si rivolge all’assenza in modo ossessivo e convulso come i Martiri si isolano dal mondo mostrando fino all’inverosimile i segni del loro distacco terreno. Come loro Pecora ama le rose non solo per il colore ma per le pungenti spine.
Allora mi interrogo sulla Poesia e sull’esistenza di una poesia autentica fatta di sola sostanza.
Una vera Poesia dello sguardo quella che ritrovo in Pecora come quella di Penna, Bertolucci e Caproni: profondi ascultatori di suoni e visioni, sensitive talpe che scavavano nel terreno dell’assoluto.
L’autore accoglie con disinvoltura sulla sua retina un dischiudersi di umori metafisici.
Il suo poetare è libero e fragile come una farfalla che leggera svolazza in tutte le direzioni del sogno: così intravediamo anche da Un occhio corto, una bellezza rarefatta e siderale di cui l’attento giardiniere di Wirbul esclama davanti ad una lumaca: “Siamo tutti su questa terra ad aspettare che qualcosa sopraggiunga a nostra insaputa. Non so se è la bellezza!”
Nell’ultima parte del libro si riconoscono una serie di ritratti umili e intimi scavati nel melmoso mare dello smarrimento esistenziale: la psicologa, la cardiopatica, l’ecologista, il dentista di Napoli sopraggiungono a chi legge lenti come i segni di un bisturi.
E i poeti, uomini trascorsi e dispersi come cenere nel tempo, cerchi fugaci lasciati dai sassi sull’acqua, lampi rosa intravisti al fianco delle stelle ai quali Pecora omaggia un canto solidale.
Alla mia mente balena, come una fiamma ardente, Arthur Rimbaud, quando in una lettera inviata a Gorges Izambard dice: “Adesso, mi incaglio il più possibile. Perché? Voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente. Lei non capirà, e io quasi non saprei spiegarle. Si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Sono sofferenze immense, ma bisogna essere forte, essere nato poeta, e io mi sono riconosciuto poeta”.
Parole che dovrebbero essere incise sulla porta di chi ha la vocazione o la presunzione di essere poeta.
Infine mi accorgo che i versi di Pecora sono circolarmente sonori, si espandono in una astratta concretezza, simile all’universo geometrico della solitaria Emily Dickinson nei “Bollettini dell’immortalità”.
Nel congedarsi dalle sue poesie l’autore scrive: Stretta porta segreta inserrata nell’ombra, un verso che fa presagire il vero destino del poeta, quello di rimanere bendato, aperto a tutte le direzioni, vagabondo in un terreno che frana sotto i piedi, sicuro di sé egli percepisce dove alberga l’assenza.