Grandi installazioni parietali di teche metalliche affastellate di ritagli di carte disegnate, accolgono il visitatore nelle prime sale; un universo popolato fascinosamente di ritagli e scarti, prove di colore, pezzi di fotografie, su cui la sua mano ha vergato tracce e segni, ordinatamente impilati e assemblati per ricostituire l’immagine di una memoria silente.Le spésse cornici metalliche fanno parte integrante dell’opera e il contenuto cartaceo vive nei suoi limiti ferrosi, senza mai oltrepassarlo.
Frammenti poderosi il cui rigore analitico restituisce il senso esatto delle cose, colte attraverso l’assemblaggio minuzioso dei frammenti stipati che costituiscono questi suoi <archivi d’artista>. E’ vivo nella sua opera il senso del quotidiano scorrere del tempo, delle proprie radici immerse nel fertile humus partenopeo, terra di miti e di memorie archeologiche, da Pompei ad Ercolano, pagine ancora pulsanti di colori e di suoni, di vibrazioni persistenti impresse in questo clima unico.
Dalla pittura degli anni ottanta, attraversata felicemente da segni liberi e guizzanti di matissiana memoria, fino alle successive elaborazioni influenzate in parte dai temi della transavanguardia e dell’espressionismo cupo e visionario, Manzo non ha mai rinunciato a mettere in campo le sue forze migliori, pur di attraversare con il fuoco alle calcagna, le roventi problematiche del linguaggio pittorico.
Con gli anni novanta, fanno la loro comparsa le tele emulsionate, su cui fissa ripetutamente l’immagine del suo giovane corpo, o di parti di esso, in un susseguirsi frenetico di mani che si incrociano, che si offrono narcisisticamente alla visione, anzi all’accumulo della visione, perché in Manzo c’è una forte tendenza alla tesaurizzazione delle immagini, che sortiscono alla luce come richiamate dopo un lungo oblio.
In molti lavori di questo periodo cruciale della sua ricerca, le sue foto convivono all’interno delle grandi teche con l’accumulo ordinato di fogli impressi dai caratteri tipografici dei quotidiani, di spezzoni e frammenti che premono verso l’esterno del vetro, creando una sorta di rigoroso ordine delle cose, dove l’immagine fotografica non cede il passo, non abdica alla sua funzione pittorica nel processo concettuale dell’immagine, che rimane scabra ed essenziale quando conquista lo spazio attraverso il medium ‘ carta ‘; e viceversa, vischiosa e seducente quando l’immagine fotografica viene adoperata nella sua forza selettiva con l’utilizzo di colle animali, colori vegetali, muffe, ed altri espedienti alchemici.
Scorrono veloci le pagine ingombre di segni, che hanno i colori delle bruciature e delle combustioni, dei tagli laceranti dei fogli simili ad esistenze spezzate che rimbalzano da una teca all’altra, con un furore espressivo perturbante, come ‘ luogo ‘ del racconto e dell’enigma, come scenario in cui si ricompongono scarni brandelli di forze che incalzano, sporcano, rilanciano nella bruciante fucina dei segni il respiro di una metafora antica ed inesausta.
Manzo rileva le vibrazioni silenti delle materie adoperate, facendo sue le parole di E. Chillida che affermava <Ogni materia ha la sua voce.Basta saperla ascoltare>.