Sono cinque gli artisti invitati dalle curatrici Ada Patrizia Fiorillo e Aurora Spinosa, ad inaugurare questo primo appuntamento con l’arte contemporanea di una storica azienda impegnata nel settore della produzione ed installazione di sistemi di illuminazione, che ha deciso con questa rassegna, di aprire un percorso ed avviare una sorta di nuovo mecenatismo attraverso i linguaggi e le pratiche dell’arte.
Questi gli artisti invitati : Domenico Spinosa, Gerardo Di Fiore, Guglielmo Longobardo, Adriana De Manes, Federico Del Vecchio.
Le loro opere, in sintonia di luce accompagnano i visitatori appena varcata la soglia d’ingresso, dove il primo impatto ci riporta ad una installazione di Gerardo Di Fiore, dal titolo L’ombra del classico, composta con legno, gommapiuma e neon – in cui l’autore mette in campo il suo repertorio di linguaggi taglienti, che lo accompagnano da alcuni decenni a questa parte.
E’ icastica la sua rappresentazione scultorea, che si avvale di un consolidato retroterra di attraversamenti dietro le spalle, passato tra performances nel sociale negli anni sessanta e settanta, con al centro il proprio corpo d’artista tra altri corpi, negletti e negati dalla alienazione mentale; alle installazioni feticcio-antropologico dei settanta e oltre; concentra il suo sguardo interrogante di questi ultimi anni che ancora scorrono, sulle alchimie di materiali docili ed effimeri come la gommapiuma, per ribadire la sua concezione di anti-monumentalità della scultura, ricercando attraverso i materiali eterocliti prescelti, altre significanze linguistiche impensate.
Operando in tal senso, Di Fiore si pone in sintonia con alcune tesi del filosofo Perniola, che scorge per questi nostri tempi, una specifica condizione di artificialità inorganica.
Del 2003 è L’ombra del classico, opera come quelle degli altri artisti presenti, pensata esclusivamente in relazione a questo evento, dove Di Fiore suggerisce lo scenario-rovine di memorie classiche, in riferimento dalla deperibilità della materia, mentre nella grande teca del 1983, Il sogno della mela, una fantastica algida composizione, dove l’intrico delle forme tagliate e sezionate a brandelli e poi riaccostate e ricucite, richiama il tema caro all’autore, della natura e della sua irrimediabile contaminazione.
Lasciata l’installazione di Di Fiore, incontriamo l’opera di Federico Del Vecchio, giovanissimo esordiente con buone frecce per il suo arco, che presenta l’opera dal titolo Artificial bowels, vetroresina e neon, del 2003.
Un roseo agnellino - così lo ha definito con una felice espressione Ada Patrizia Fiorillo – l’animale che si immola nel periodo pasquale, che penzoloni ci fronteggia, con annesse interiora debordanti di luce al neon verde.
Del Vecchio già da qualche anno ha scelto consapevolmente di scandagliare le problematiche connesse all’artificialità e alle più avventurose proiezioni futurologiche – al cui centro troviamo il cyber bunny, l’innocuo coniglietto che sembra assalirci dalle foto ( plotter painting su alluminio ) con i suoi occhi luminescenti.
Scenari inquietanti e problematici si riverberano dalle sue opere, dove concentra la sua attenzione sul corpo ibrido, sul cyborg, trovando numerosi punti di contatto con le analisi del filosofo Perniola, che più di tutti ha indagato questo tipo di questioni.
La luce algida dei neon che accompagna le installazioni di Del Vecchio, rende queste opere terribilmente sature di presagi, laddove il coniglio comunemente protagonista di cartoni animati per l’infanzia, è anche nel contempo, animale commestibile da macellare, alimentando una miscela di sensazioni ibride.
La seconda tappa di questo nostro straordinario viatico dell’arte, incrocia una grande tela di Domenico Spinosa, dal titolo In volo nel sole olio del 2003, dove l’ottantenne maestro esulta e mette in campo le sue forze vitalistiche migliori; in un denso, forte concentrato di accattivante pittura dai colori mediterranei caldi e ammalianti.
Nel suo lungo, anzi lunghissimo operare nell’arco di questo novecento, Spinosa non ha mai rinunciato a schierare in campo la freschezza cromatica della sua intensa e vibrante pittura, espressione di uno spirito giovane sempre in perenne rinnovamento.
La natura e la sua pulviscolare brulicante umanità, ha costituito per esso fonte inesauribile di ispirazione – in mostra anche un notevole dipinto del 1969, dal titolo Interno con macchina, di matrice informale morlottiana, stemperate nelle calde ascendenze cromatiche partenopee.
La terza tappa è con le opere di Guglielmo Longobardo, che presenta un dittico dal titolo Alfabeti di luce del 2003, e Paesaggio flegreo del 1997, nonché Penombra rosa del 1998.
Paesaggio flegreo e Penombra rosa del 97/98, evidenziano pienamente la natura intima e coloristica dell’autore, che superati i limiti contingenti dell’informale, a cui precedentemente si era rivolto, recupera con queste opere una piena maturità linguistica, tenuta continuamente sotto controllo, attraverso l’uso sapiente e reiterato del segno-colore; cedendo ad incredibili lumiscenze visionarie dai colori cobalto, dove si nasconde nelle pieghe, astratto, il paesaggio flegreo, che sollecita con la qualità della sua luce meridiana i sensi dell’operatore.
Ora, la natura e i luoghi appaiono nella estrema rarefazione di luce e di forma nella essenzialità della percezione visiva, come annota in proposito Michele Sovente.
Nell’opera Alfabeti di luce invece, Longobardo destruttura la visione, riducendola alla visione monocromatica, e lasciandola smarrire nelle pieghe luminescenti del bianco.
Con le opere di Adriana De Manes, si conclude il nostro viatico in salita, fino in cima al solarium, dove campeggiano le sue sdraio di alluminio in rapida sequenza con stampa digitale su vinile e alluminio, dal titolo Skin car.
La De Manes insegue un vissuto personale attraverso una rinnovata modulazione soggettiva di esso, che si arricchisce di nuovi temi estrapolati dal proprio quotidiano vivere.
Una vasta congerie di fenomeni intimi ed inconsci, da cui provengono le immagini dell’installazione, tra corpi sdraiati bersagliati dalla luce e dal calore in una lunga serialità di immagini.
La De Manes presenta anche un lavoro del 1993 dal titolo Fuga, e uno del 1995 Senza titolo- una sorta di lavori alla maniera nera per usare una espressione del mondo dell’incisione, per significare la presenza-assenza di pulsanti fenomeni percettivi intermittenti della visione.